Il disastro del Vajont

24 Agosto 2014

9 Ottobre 1963. 22:39 ora stabilita dagli orologi trovati lungo il Piave, tutti fermi a quell’ora.

Facciamo un salto all’inizio del secolo, quando le valli erano realtà povere, dove non vi era possibilità di avere un lavoro. Lo scenario della vicenda è un grande canyon scalato nei secoli dal fiume Vajont, che parte da Erto per arrivare a Longarone, chiamato la gola del diavolo: non c’erano strade, era una zona impervia; un unico sentiero permetteva agli abitanti di Erto e Casso di arrivare a Longarone attraversando la montagna. Durante la prima guerra mondiale, il Genio militare fa realizzare una strada militare che dava accesso a questa valle: questo permetterà a queste zone di affacciarsi al resto del monto e di instaurare le prime forme di commercio. I conflitti mondiali lasciarono un profondo segno in queste valli e al termine delle guerre, questi territori che già erano poveri, ne uscirono devastati. L’unica possibilità di lavoro era data dalla coltivazione della terra e dall’allevamento del bestiame nell’unica zona fertile a disposizione: il monte Toc. Alle pendici di questo monte si estendeva un altipiano dove per circa sei mesi all’anno le popolazioni si dedicavano ad agricoltura e allevamento.

Finite le due guerre in Italia cominciano a comparire le nuove comodità: frigoriferi, ferri da stiro, televisori. Questo comportò una richiesta di energia superiore a quella prodotta prima della guerra, che l’Italia non era sicuramente in grado di fornire. Si decise di elargire dei fondi pubblici a società private, per realizzare impianti per la produzione di energia. Nascono sul territorio nazionale numerose società: tra il Veneto e il Friuli la più grande era la SIV che verrà assorbita nel 1929 dalla SADE, una società capitanata da un nobile imprenditore veneziano che tra gli anni ’20 e gli anni ’40, raccogliendo fondi privati, fece realizzare nell’alto bellunese, lungo il fiume Piave, ben 7 dighe artificiali, con al vertice una centrale idroelettrica. La SADE aveva quindi uno dei più grandi impianti realizzati in Italia che garantiva 1/3 del fabbisogno nazionale di energia.Il problema era che il fiume Piave non garantiva l’apporto necessario di acqua per produrre costantemente energia per tutto l’anno. La SADE decise così di crearsi una riserva d’acqua: dopo i sopralluoghi avvenuti tra gli anni ’40 e gli anni ’50 nelle Dolomiti, decisero di soffermarsi nella valle del Vajont, una stretta gola lunga 7 Km per realizzare una nuova grande opera. Per gli abitanti non fu facile rinunciare da un giorno all’altro ai propri appezzamenti di terreno: comitati e lotte tenteranno di impedire la costruzione della diga, ma la SADE ebbe la meglio.

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La società decise di inoltrare una richiesta al ministero dei lavori pubblici a Roma per la costruzione di una diga alta 200 metri, con una capacità di 50 milioni di metri cubi di acqua: lo stato diede subito il via libera. Durante i due anni che passarono prima dell’inizio dei lavori, la SADE si accorse che la valle poteva essere sfruttata maggiormente e decise di fare una variante in corso d’opera: mandò a Roma un secondo progetto richiedendo un innalzamento del muro della diga di 61,60 metri per un totale di 261,60 metri; la diga sarebbe stata la più grande mai realizzata al mondo. Il progettista Carlo Semenza fu il padre di questo progetto.

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In questo modo la capacità del bacino triplicò arrivando a contenere 160 milioni di metri cubi d’acqua (per fare un raffronto, la somma dei 7 bacini che la SADE già possedeva conteneva un totale di circa 100 milioni di metri cubi d’acqua). Se l’Italia fosse riuscita a realizzare questo progetto, sarebbe diventata famosa in tutto il mondo.

La SADE cominciò i lavori nel 1956, senza autorizzazioni perché era sicura sarebbero arrivate, facendo realizzare scavi e fondamenta. Ufficialmente i lavori inizieranno nel gennaio 1957. In meno di 3 anni, nel Settembre 1959, la più grande diga del mondo venne ultimata, grazie al lavoro di 250 operai, di cui 50 morirono durante i lavori.

Una diga unica del suo genere, a doppio arco: una base di 22 metri di larghezza che sale e mano a mano si assottiglia fino ad arrivare al coronamento largo 3,5 metri.

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La SADE aveva fretta di collaudare l’opera: era necessario riempire la diga a piena portata e verificarne la tenuta per un certo periodo di tempo. Questo collaudo iniziò nel Settembre 1959: con il progetto Grande Vajont, si prevedeva il collegamento della grande diga con le altre 7 dighe di proprietà della SADE, che grazie ad uno scavo di circa 80 Km di gallerie, porteranno l’acqua in eccesso degli altri bacini all’interno di quello più grande.

Nel 1959 in una delle dighe minori, si staccò una frana togliendo la vita ad una persona. La notizia echeggiò e gli abitanti della zona cominciarono ad allarmarsi.

Durante una prima fase di collaudo della diga, con un innalzamento delle acque a quota 600 m sul livello del mare, nel Novembre del 1960, una frana di 700.000 metri cubi di roccia precipita nel serbatoio (ancora poco pieno), senza provocare vittime ma una grande paura, sia nella gente che nelle autorità. La SADE decise di fermarsi e svuotò il lago per indagare sull’accaduto. Nel frattempo, i contadini del monte Toc, si accorsero di una spaccatura a forma di M nella montagna e informarono la società che aprì una serie di indagini supervisionate da geologi, che porteranno ad un unica deduzione: l’esistenza di una frana di origine preistorica, dell’entità di 250 milioni di metri cubi di roccia, che potrebbe rimanere integra per milioni di anni o staccarsi da un momento all’altro quando l’acqua comincerà a bagnarla. La SADE non poteva abbandonare il progetto ormai giunto al termine, costato circa 16 miliardi di lire, stanziati al 50% dallo stato italiano: decise di salvare il salvabile, cercando di utilizzare la parte del bacino non interessata dalla frana, commissionando la realizzazione di una galleria di sorpasso.

Nel 1962 Roma chiede una nuova prova con innalzamento delle acque a 660 metri sul livello del mare. Cominciarono a comparire boati, scosse, piccoli terremoti: la gente ha paura e chiede spiegazioni ma la SADE assicura che questi eventi sono nella normalità durante la costruzione di questi grandi impianti. Nello stesso anno muorì Carlo Semenza e vi successe Alberico Biadene, un tecnico della SADE che aveva come fine ultimo collaudare la diga e venderla all’ ENEL, nata anch’essa nello stesso anno, che come ente statale è disposta ad acquistare l’impianto purché sia a norma e collaudato.

Vendere un impianto con una capacità di invaso di 160 milioni anziché 60 milioni di metri cubi di acqua comportava una grande differenza economica: bisognava puntare al massimo. Dopo la grande frana la SADE decise di commissionare privatamente degli accertamenti tecnici ad un centro studi di sua proprietà, di cui nessuno dovrà mai essere a conoscenza. Fa realizzare un modello della valle in cui si simulò una frana di 50 milioni di metri cubi anziché di 25o milioni, per un risultato di impatto 5 volte inferiore, per evitare dati allarmanti, fissando il livello di sicurezza a 20 metri sotto il margine della diga. Il modello verrà nascosto e ritrovato poi durante il processo. La società proseguì e inoltrò a Roma la terza prova di invaso che richiedeva il collaudo a quota 715 m sul livello del mare, ignorando i termini di sicurezza delineati dagli studi. L’acqua salì e la frana cominciò a muoversi, fino a quando, il 23 Settembre 1963, fu chiaro che ormai non si sarebbe più fermata. Si cominciò a svuotare la diga per arrivare almeno alla quota di sicurezza: il 26 settembre si aprono le paratoie e iniziò lo svuotamento che causerà la discesa del livello di acqua di 1 metro al giorno. L’8 Ottobre la quota raggiunta sarà di 700 metri sul livello del mare. Tutti sapevano che stava succedendo qualcosa; la SADE decise lo sgombero della zona.

“Se voi parlerete con qualcuno da queste parti, non sentirete mai parlare degli anni Ottanta, degli anni Trenta, degli anni Duemila: sentirete sempre parlare di prima Vajont e dopo Vajont. Non esiste più altro evento di riferimento sulla linea del tempo.”

Mercoledì 9 Ottobre 1963. Quella sera in televisione andava in onda una partita di calcio. Quella sera le autorità longaronesi intervennero, decidendo di istituire due posti di blocco per delimitare l’accesso a tutta l’area del longaronese a causa di “piccoli sfioramenti d’acqua oltre il ciglio della diga” .

Fuoriuscirono dalla diga 50 milioni di metri cubi di acqua. Un pezzo unico del monte Toc si staccò e precipitò nel grande lago e sollevò due enormi onde: la prima in direzione di Erto che verrà però risparmiata, contrariamente a San Martino e le frazioni limitrofe, che verranno completamente rase al suolo. L’altra onda compì un salto di circa 300 metri e si diresse verso Casso, arrivò a lambire le prime case, la scuola, il cimitero e poi scese scavalcando il muro della diga in direzione di Longarone. In 4 minuti dal distacco l’acqua raggiunse il paese, che venne però devastato prima da un muro d’aria con una potenza di due volte e mezzo la bomba di Hiroshima.

Di quella sera non ci sono molte testimonianze: la luna piena, il boato assordante e il campanile di Pirago.

Quella notte morirono 1917 persone.

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La diga del Vajont è visitabile grazie all’impegno degli informatori della memoria che vi accompagneranno lungo il percorso sul coronamento: qui trovate le informazioni http://www.turismofvg.it/Monumenti-e-siti-storici/Diga-del-Vajont